Dopo tante guerre, vi racconto la mia terribile battaglia contro il Covid - Monastero del Bene Comune

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venerdì 20 novembre 2020

Dopo tante guerre, vi racconto la mia terribile battaglia contro il Covid

Dopo tante guerre, vi racconto la mia terribile battaglia contro il Covid

12 novembre 2020

E pensare che ero convinto di aver visto e vissuto tutto. Ho fatto il giornalista per quarant’anni, sono stato inviato di guerra per trenta, ho documentato tutte le guerre del pianeta, ho visto bambini e donne morte, corpi bruciati e squartati, file di cadaveri di soldati ormai bluastri, interminabili movimenti di profughi, reietti di ogni tipo , sbattuti qua e al a seconda dei movimenti degli eserciti . Mi hanno sparato, bombardato, una notte una cannonata ha distrutto la camera di albergo vicino a quella nella quale dormivo, un’altra volta una bomba ha distrutto il primo piano dell’hotel dove stavo, io dormivo al secondo, l’esplosione mi ha causato un danno permanente ad un orecchio, in Israele sono passato tre minuti prima sul luogo di un attentato che ha provocato almeno dieci morti. Poteva bastare? No! Per tutto il periodo del Covid ho applicato rigidamente i comportamenti più prudenti possibili, anche in vacanza quest’estate, mia moglie de io abbiamo frequentato solo pochissimi congiunti, sempre con mascherina e a distanza di sicurezza. E’ bastata una sciagurata cena, l’undici di ottobre, per rovinare tutto. Sei amici al ristorante, al chiuso ma con sufficienti distanze di sicurezza. Una settimana dopo mia moglie ha avuto un po di febbre. Tampone per tutti e due. Il suo positivo, il mio no. Due giorni dopo mi sveglio con 38 di febbre. Ahia!
Lei sta bene subito, per fortuna, io no. Nonostante l’assunzione di tutte le medicine previste dai protocolli e ordinatemi dal medico di famiglia la situazione rimane critica. Non ho forza, non mangio, sempre febbre alta. Mercoledì mattina sto malissimo. Non riesco ad alzarmi da letto. Chiamiamo soccorso. Arriva l’ambulanza. Mi misurano i parametri e scopro che ho una saturazione di ossigeno nel sangue troppo bassa,  ridicola. Ho la polmonite. Ricovero immediato al Policlinico a Milano. Lastre, ecografie e prelievi confermano la malattia. Mi mettono un casco in testa e mi inondano di ossigeno. Resto al pronto soccorso, un enorme stanzone dipinto di verde, pieno di malati tutti casco muniti, in un frastuono di luci e rumori senza mangiare e con un po di acqua che riesco a succhiare con una minuscola cannuccia attraverso una valvola del casco. Soffro di claustrofobia  e ho paura, tanta paura. Il casco non ti permette di vedere al di là della plastica e non ti fa sentire i rumori esterni ma solo un terribile fischio, simile al rumore di un reattore di aereo. Anche la notte non spengono mai la luce, c’è troppo da fare, troppi malati, troppa sofferenza. Infermieri che vanno avanti e indietro senza sosta, tutti bardati come degli omini Michelin. Poche parole, solo qualche malato che urla, uomini ed donne, giovani e anziani, tutti assieme in una specie i sabba infernale. 
“I’ve see things you people wouldn’t believe” diceva Rutger Hauer in Blade Runner. Anch’io so di aver visto cose che voi umani ………

Di notte mi trasportano in reparto, una specie di hotel a cinque stelle, rispetto al Pronto Soccorso. Stanza da due anche se mi rendo conto che il mio vicino di letto sta peggio, molto peggio di me. Sono terrorizzato, ho paura di morire, non capisco nulla. Per fortuna sono tutti gentili anche se non riesci a riconoscerli. Coperti dalla testa ai piedi di involucri di plastica azzurra e bianca, due mascherine, due paia di guanti di nitrile, due mascherine ed occhiali. Alcuni hanno anche una visiera. L’ossigeno continua pompare nei miei polmoni, il fischio è insopportabile, vorrei grattarmi il viso, ho la barba di due settimane, sono sporco e non riesco a muovermi, non ho forza. La sera, tragico errore, chiedo qualcosa per dormire, non ci riesco da tre giorni. Mi danno un tranquillante, non so che cosa. Di notte mi sveglio, devo andare in bagno ma non ci riesco. Mi portano la padella e mentre cerca di liberarmi, vedo sul muro bianco davanti a mie, sono le cinque del mattino, delle cose, come delle scimmie nere che si arrampicano sul muro, a momenti distinte, subito dopo quasi spacchettate come le immagini digitali quando vengono troppo ingrandite. Si muovono sul muro e io non capisco più nulla. Sto impazzendo? Mi spiegheranno poi che il tranquillante è andato in “paradosso” con gli altri farmaci e mi ha causato una vera e propria crisi tossica. 
Passano tre giorni, non so come sto, so che ho sempre paura, piango, prego, lo faccio sempre, e spero che mi tolgano questo casco che mi impedisce ogni cosa ma che, probabilmente, mi sta salvando la vita. Il mio vicino sta sempre peggio. E’ una persona meravigliosa, riesce a stare per dieci ore a pancia in giù senza alcun lamento. Gli fanno la TAC. Male! Ha un polmone rotto, soffre abitualmente di asma e questa patologia, pare, sia  benzina sul fuoco. Decidono di portarlo in terapia intensiva per intubarlo. Assisto piangendo come un vitello  a tutta la procedura di vestizione e di preparazione. Anche lui piange, vorrebbe chiamare i suoi due bambini ma non riesce a farlo, vorrebbe restare qui in reparto a provare a guarire solo con il casco, accettando tutto. Mentre assisto a tutto ciò, per caso, davanti alla porta della stanza, appare una bara di quelle grigie, zincate. Qualcuno non ce l’ha fatta. Vorrei strapparmi tutti i tubi che ho attaccati al corpo, togliermi questo maledetto casco e scappare. Portano via il mio compagno di stanza. Mentre esce alza un braccio verso di me in segno di saluto. Io urlo:” Dai, ce la farai!!” Ma lui non può sentirmi, i nostri caschi, il fischio dell’ossigeno, impediscono qualsiasi comunicazione  verbale.
Sono sempre più impaurito e stanco. Non riesco a mangiare nulla, parlo al telefono con mia moglie, che, per fortuna sta bene. Lei cerca disperatamente di farmi coraggio, ma io non ci riesco. Chiedo di parlare con una dottoressa. Dopo un paio d’ore questo autentico angelo viene a parlare con me, Rassomiglia anche ad un angelo anche se non la posso vedere. Coperta dalle testa ai piedi con un involucro di plastica azzurra, cuffia in testa, due mascherine, occhiali di plastica bianca trasparente e visiera. La voce, però, è tanto dolce, rassicurante. Mi spiega tutto, con dolcezza e umanità. Le chiedo cose assurde, vorrei sapere quando e se tutto questo finirà ma lei non ha la sfera di cristallo, può solo dirmi che ce la farò. Con calma ma andrà bene. La polmonite è una brutta bestia, la mia non è gravissima ma c’è e bisogna insistere con l’ossigeno, il cortisone e l’antibiotico.
Piango e prego, prego e piango, sento però che, dentro di me,  sta succedendo qualcosa.
Sabato mattina mi tolgono il casco e mi mettono un altro sistema di respirazione più umano. Non riesco a mangiare nulla ma inizio timidamente a fare qualche piccolo movimento. I miei muscoli non esistono più, mi sento debolissimo. 
Ogni tanto qualcuno del reparto viene portato in terapia intensiva ma non ho visto altri morti. Ricoverano un anziano, molto anziano. 
-“ E’ cieco, ha novant’anni ed è completamente solo al mondo !”- Mi dirà la dottoressa quando viene a vistarmi.- “ Ma ce la farà!”- Mi assicura.
Non ho notizie del mio compagno di camera. Gli infermieri non sanno neppure se l’abbiano portato nell’Intensiva del Policlinico o al reparto costruito in Fiera ad aprile.
Comincio a stare meglio, ho un po di fame e le analisi di “emogas”, una dolorosissima puntura- ma chi se ne frega- che ti fanno in un’arteria del polso, dicono che i miei valori stanno tornando normali. Grazie Gesù!
Ricomincio a mangiare e da adesso in poi, la strada è in discesa.
Mercoledì mattina il miracolo. Faccio il walking test, fallisco il primo, azzecco il secondo con la dottoressa, il mio angelo, che mi parla e con la quale converso tranquillamente raccontando le mie esperienze di lavoro e di vita, riusciamo anche a scherzare un po. Le dico che quando guardo il personale mi torna in mente un vecchio libro che ho letto da ragazzo. La storia di San Michele, scritto da un medico svedese, Axel Munthe, che è vissuto in Italia nel 1911 ristrutturando, ad Anacapri una splendida villa.
Il medico racconta delle sue esperienze parigine alla Salpetriére, un famoso ospedale del capitale francese. Racconta delle suore che giorno e notte si aggirano per i reparti con le loro lunghe vesti bianche lunghe fino a terra, in testa, sopra la cuffia, dei cappelli bianchi con delle larghissime tese arrotolate. 
_” Hanno più dimestichezza con l’acqua santa che con i disinfettanti, più familiarità con il crocifisso che con i medicamenti ma sanno sempre darti una parola buona e una carezza di sostegno!”-
I miei angeli non utilizzano l’acqua santa ma i detergenti disinfettanti e buttano sempre il  secondo paio di guanti dopo ogni visita. 
Alle 14.30 di mercoledì 4 novembre mi dimettono. Piango tanto, ho paura, certo, ma non vedo l’ora di esser a casa. Referti sottobraccio salgo in ambulanza e mi accorgo che sto tremando. Il rientro a casa è un trionfo. Mia moglie piange assieme a me. Mio figlio che ci ha tanto aiutato nel quotidiano in queste due settimane rimane prudentemente a distanza. Io sono in quarantena per dieci giorni e non devo uscire di casa. Posso vedere e stare vicino solo a mia moglie che è stata la prima da essere positiva ed è ormai guarita nonché, sicuramente, immune.
Sono stanco morto ma, finalmente un po più tranquillo. Ho fame, mi sento bene anche se, solo l’alzarmi in piedi dalla poltrona mi da tanta fatica. Passerà

FG

https://www.lastampa.it/rubriche/la-voce-dei-lettori/2020/11/12/news/io-inviato-di-guerra-vi-racconto-la-mia-terribile-battaglia-contro-il-covid-1.39531917

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