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martedì 12 maggio 2015
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> «Noi proviamo vergogna per una simile proposta!»
> «Noi proviamo vergogna per una simile proposta!»
L’8
luglio 2013 a Lampedusa papa Francesco chiedeva: «Chi è
responsabile del sangue di questi fratelli e queste sorelle in
umanità? Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna… la
cultura del benessere ci rende insensibili alle grida altrui!».
Siamo
diventati insensibili perché non vediamo l’essere umano che c’è
dietro ogni vita spezzata, mentre bisognerebbe conoscere ciascuno di
loro: il suo volto, le sue sofferenze, le angosce e le speranze, le
persone che ama e che ha lasciato, quelle che porta nel cuore ovunque
vada, quelle che lo custodiranno sempre nel ricordo.
E
invece no: solo numeri, che hanno peso solo se sono alti, sempre più
alti, mentre va sempre più a fondo la dignità di chi non vuole
vedere, di chi distoglie lo sguardo dagli occhi dei propri compagni
di umanità. Bisognerebbe
ascoltarli quando parlano di chi hanno lasciato, delle violenze
patite,
della solidarietà ma anche della diffidenza incontrata nel nostro
paese, di cosa sperano di fare non «nella» vita ma «della» loro
vita.
Bisognerebbe
poter chiamare ciascuno per nome, il suo nome, quello con cui lo ha
sempre chiamato chi lo amava e lo ama, poter scrivere quel nome su
una busta, una cartolina postale come facevano tanti italiani
all’estero fino a pochi anni fa; bisognerebbe poter conoscere il
nome e il volto che c’è oggi dietro un profilo virtuale. E invece
no: tutti loro sono numeri che infastidiscono altri numeri, quelli
delle statistiche del nostro benessere.
Sì,
bisognerebbe davvero cambiare l’approccio al problema delle
migrazioni e dei profughi, ma come farlo in un clima sociale e
culturale che si è via via imbarbarito
in
questi ultimi venticinque anni? Abbiamo lasciato che il veleno
dell’odio e dell’indifferenza verso l’altro inquinasse le falde
dei nostri pozzi: uomini delle istituzioni che adottano il linguaggio
delle bettole o delle promozioni televisive, personaggi pubblici che
si vantano di «dire quello che pensano» senza minimamente pensare a
quello che dicono e alle conseguenze che provocano, abitanti di terre
e regioni che un tempo si vantavano di essere le più cattoliche
svelano atteggiamenti di intolleranza antievangelica in misura più
marcata di ogni altra zona.
Anche
nella chiesa italiana, che pur ha agito e agisce attraverso le sue
istituzioni caritative con molta generosità e abnegazione verso i
migranti, non manca chi dovrebbe interrogarsi sulle proprie
responsabilità in questo processo di ammorbamento dell’aria nella
convivenza civile: i
tanti uomini e donne che in questi anni si sono fatti e continuano a
farsi prossimo ai più deboli vengono dileggiati come «buonisti»,
chi si impegna quotidianamente per la pace è additato come imbelle
«pacifista»,
chi denuncia i meccanismi perversi dell’idolo-mercato, fosse pure
il papa, viene classificato come «comunista» o al massimo come
«utopista».
Vediamo
espandersi come un contagio in tutta l’Europa questo clima di
ostilità verso l’altro, soprattutto se povero, di gretto egoismo
tribale, in un continente di cui solo pochi anni fa si decantavano le
profonde radici cristiane e la cultura solidaristica dei ceti operai
e dello «stato sociale». Che amarezza constatare che tra la «nostra
gente» molti – ormai dimentichi del loro passato di migranti,
della loro antica miseria, della loro fuga verso terre dove c’era
speranza di pane – hanno bevuto questo veleno della negazione dello
straniero. È l’amarezza del cardinale Parolin che confessa:
«Personalmente
mi dispiace molto che ci sia questo atteggiamento di chiusura che può
diventare addirittura di disprezzo e di intolleranza nei confronti
degli altri.
E
che succeda nella regione in cui sono nato e con cui conservo un
rapporto di amore, appesantisce ancor di più...». Una regione, come
altre in Nord Italia, un tempo definite «cattoliche»: ma «si può
essere cattolici e dire di no all’accoglienza? La risposta ovvia è
no! – ribadisce con forza il segretario di Stato – Non si può
essere un buon cristiano se c’è una chiusura totale!». E invece
vediamo crescere l’odio razzista, anche grazie alla propaganda
martellante di impresari della paura che accomunano innocenti e
criminali con perfida menzogna, la menzogna che vede in ogni
immigrato, in ogni povero, in ogni straniero un attentato alla nostra
sicurezza o al nostro benessere.
Così
anche il ripetere con papa Francesco che è in atto «la terza guerra
mondiale» finisce addirittura per portare all’aberrazione di
risposte armate a una tragedia umanitaria. Ma se una guerra mondiale
è in atto, mondiali devono essere la solidarietà e gli sforzi per
la pace, non le armi e i bombardamenti. Ipotizzare
di distruggere o bombardare i barconi nei paesi di partenza è «un
atto di guerra»,
come ha affermato mons. Vegliò in una nota del Pontificio Consiglio
per i Migranti; proclamarsi «pronti a combattere», predisporsi a
«passare all’azione» significa accettare la logica
dell’intervento militare, della guerra: se non fossero parole
pronunciate da chi non sa quello che dice, sarebbe un’autentica
follia.
Se
non si vuole che i barconi affondino, è soluzione deleteria e
ignobile colarli a picco in anticipo a colpi di bombe, magari
ignorando se non sono già stati riempiti di scudi umani. Se si vuole
che i disperati smettano di fuggire da zone di guerra, di violenza,
di carestie è disumano lasciare che vengano sballottati e rivenduti
più volte in una camera di tortura grande come un immenso deserto.
Ma
noi, con l’insana convinzione di poter creare barriere
impenetrabili all’anelito di vita di intere popolazioni,
cancelliamo ogni obbligo al rispetto dei diritti da riconoscere a
ogni essere umano: così non si attivano corridoi umanitari ma si
lascia che ogni pista nel deserto diventi terreno fertile per i
trafficanti, i campi profughi si trasformino in bersagli indifesi o
in incubatori di epidemie. Le parole di mons. Perego, direttore di
Migrantes, ben esprimono il sentimento di molti di fronte a piani
strategici che prevedono solo il respingimento di esseri umani come
fossero rifiuti da tenere al largo della battigia: «Noi proviamo
vergogna per una simile proposta!».
In
questa immane tragedia i cristiani di alcuni paesi – dal
Medioriente alla Nigeria al Pakistan – sono tra i più esposti e
indifesi, e rischiano di scomparire definitivamente da regioni che li
hanno visti per secoli custodire la loro fede e convivere con i
credenti dell’islam. Ma sbaglieremmo a pensare che si tratti di una
guerra di religione da cui una parte uscirebbe vincitrice e l’altra
sconfitta: è un problema di sconfitta dell’intera umanità, a
cominciare da quella dignità insita in ogni essere umano, anche in
quello che non voglio guardare e accogliere nel mio spazio vitale.