Progetto Contadini Resistenti - Monastero del Bene Comune

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martedì 17 maggio 2016

Progetto Contadini Resistenti


Attaccati alla terra come le radici degli ulivi 
 Il Progetto “contadini resistenti” nasce dall’idea di solidarietà da parte di alcune associazioni e piccole realtà contadine venete con i villaggi a sud di Hebron, i quali soffrono di tutta una serie di problemi che rendono la vita di questi contadini veramente difficile, si va dall’occupazione militare alle colonie ebraiche, fondate sulle loro terre, dalla confisca delle poche risorse idriche alla distruzione sistematica delle case, scuole, moschee, abbattimento degli ulivi e distruzione delle colture… tutto questo si somma alle già difficili condizioni climatiche e desertiche della regione che rendono l’attività agricola molto precaria.
Di seguito una scheda di presentazione della situazione di questi contadini e la proposta per ospitarli per un incontro.



Nella Cisgiordania occupata, tra le colline a sud di Hebron, 12 villaggi rurali resistono a un tentativo di evacuazione che prosegue da oltre 15 anni, scegliendo la resistenza nonviolenta contro le forze di occupazione israeliane. Una zona bellissima e rurale che ha la sfortuna – tra le altre – di confinare con la Green Line, e sulla quale l’amministrazione civile israeliana non ha esitato ad imporre lo status di ‘area militare’ adibita alle esercitazioni. 
È la "Firing zone 918", secondo la spartizione degli Accordi di Oslo in area C – quindi sottoposta a controllo militare e civile israeliano – nella quale ai suoi abitanti è vietato costruire qualsiasi ‘struttura permanente’: che sia una casa, una moschea, una scuola. O un pozzo per la raccolta dell’acqua, necessario alla sopravvivenza. 
Firing Zone 918’: una storia lunga 40 anni 
La condizione in cui si trovano a vivere le comunità dei villaggi dislocati tra le colline a sud di Hebron è il risultato di oltre 40 anni di politiche militari israeliane, mirate ad assumere il controllo di una zona considerata ‘strategica’, soprattutto per la sua prossimità con la Green Line
Già dagli anni Settanta Masafer Yatta viene dichiarata "zone militare chiusa", ma la sua storia inizia nel 1999 quando vengono avviate le demolizioni forzate e partono i primi ordini di evacuazione, emessi dai tribunali israeliani su disposizione dell’Israeli Land Administration (ILA) e del ministero della Difesa, che considera quell’area ‘d’interesse strategico vitale’ per le esercitazioni militari ordinarie e straordinarie, come quelle intraprese in seguito alla disfatta in Libano. 
Gli abitanti vengono trasferiti oltre la bypass road 317, una delle tante strade ad uso esclusivo dei coloni, costruita per collegare gli insediamenti illegali e contemporaneamente tagliare ogni contatto diretto tra i villaggi in cui risiedono le comunità palestinesi.
In seguito, alla strada si aggiungerà anche un tratto di Muro, in un’operazione che di fatto isola tutta l’area dal resto della Cisgiordania. 
Mentre i villaggi vengono evacuati e le umili strutture abitative demolite, intorno ai resti dei villaggi crescono, rapidamente, gli insediamenti israeliani di Ma’on, Susyia, Karmel e Mezadot Yehuda, forniti delle più moderne infrastrutture, e abitati da coloni particolarmente aggressivi i quali non esitano ad attaccare persino i bambini che dai vari villaggi si recano all’unica scuola in At-Twani., Bruciano i raccolti, tagliano gli ulivi, avvelenano le pecore….
Tra ottobre e novembre 1999 vengono confiscate le terre e le proprietà, e le ruspe ricoprono i pozzi d’acqua e gli ingressi delle grotte di chi una casa non l’aveva neanche allora. E più di 1000 persone vengono deportate al di la della road 317….
Il messaggio è chiaro: quelle terre servono allo Stato di Israele per ‘tenere in forma’ le forze armate, nonostante la comunità palestinese le abiti da sempre, come dimostrano i documenti di proprietà divenuti carta straccia. 
Le comunità non restano a guardare: numerosi ricorsi vengono presentati alla Corte suprema israeliana, che alla fine dà loro ragione. Ma solo in parte. Nei primi mesi del 2000 infatti una sentenza stabilisce che, mentre i ricorsi vengono esaminati, gli abitanti possano tornare temporaneamente alle proprie terre, senza tuttavia poter costruire alcun tipo di infrastruttura di tipo "permanente". 
Cinque anni dopo il processo di arbitrato si conclude senza un accordo. La comunità palestinese, nel frattempo, si è organizzata: le case vengono ricostruite, si sceglie la resistenza nonviolenta. 
Nasce il Comitato Popolare delle Colline a sud di Hebron, che con la collaborazione di israeliani e internazionali:
"Abbiamo scelto di non utilizzare armi", spiega Mahmoud. "Di lottare a mani nude e con il cuore sotto il sole, resistendo in modo nonviolento contro l’esercito. E continueremo sempre a farlo".
Una lotta che sembra senza fine. Nel luglio del 2012 l’allora ministro della Difesa, Ehud Barak, ha informato la Corte Suprema che il governo ha preso una "decisione irrevocabile": 8 dei 12 villaggi dell’area dovranno essere  demoliti nel giro dei prossimi anni.
"Continueremo a lottare fino al pieno riconoscimento dei nostri diritti con tutti i mezzi pacifici che abbiamo a disposizione. Non ce ne andremo mai, quella è la nostra terra", ribadiscono i contadini del comitato popolare di resistenza. Quando arrivano le ruspe dell’esercito di occupazione, è da lì che partono. Perché "quando distruggi un pozzo, una casa…il recinto delle pecore distruggi la vita di tutto il villaggio" racconta Mahmoud, cercando di spiegare cosa voglia dire vivere in una grotta senza elettricità, in un’area circondata da coloni che attaccano continuamente. Terrorizzando, intimorendo, avvelenando i campi e il bestiame.
Negli ultimi anni ha perso 100 pecore in questo modo, e la parola che usa di più per raccontare la sua vita è "Sumud": il termine arabo che indica la ‘fermezza’, quella capacità palestinese di resistere contro l’oppressione restando attaccati alla terra come le radici degli alberi di ulivo. 


LA PROPOSTA:
L’idea è quella di portare una piccola rappresentanza (2/3 persone) di questi contadini resistenti qui in Italia e quindi attraverso incontri con la popolazione far conoscere direttamente dalla loro diretta testimonianza la situazione in cui vivono e le scelte di lotta da loro adottate.
Noi di Verona abbiamo già messo in piedi un incontro per l’11 settembre.
Si cercano altre realtà disponibili ad organizzare serate, in altre parti d’Italia, con la loro testimonianza.

(La mappa mostra la posizione dell'area di Masafer Yatta, Quella in nero sarebbe il confine ,con costruzione definitiva del muro, che Israele vuole realizzare. Quella in verde il confine legale decretato dall’Onu. In rosso la firing zone 918 da evacuare completamente


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