Migranti ambientali - Monastero del Bene Comune

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venerdì 14 febbraio 2020

Migranti ambientali


Lunedì, 03 Febbraio 2020 


MIGRANTI AMBIENTALI

Dalla Conferenza sul clima di Rio de Janeiro del 1992 abbiamo tutti gli strumenti per essere collettivamente consapevoli di ciò che sta avvenendo al Pianeta: attraverso le nostre attività e le scorie che produciamo, lo stiamo rendendo inospitale. Diverse aree diventano progressivamente inadatte alla sopravvivenza umana, soprattutto a causa delle emissioni di anidride carbonica e il conseguente riscaldamento climatico.
Allarme inascoltato
A parte l’impegno delle organizzazioni ambientaliste, sono stati fatti soltanto pochi passi avanti che, purtroppo, sono ben lungi dall’essere risolutivi.
In diversi settori sono state progressivamente introdotte tecnologie con impatti ambientali più limitati, ma il loro utilizzo smodato ha fatto in modo che, nonostante i progressi, l’impatto sulle risorse del Pianeta sia comunque in crescita. Il Global Footprint Network stima che nel 2019 abbiamo utilizzato le risorse di 1,75 pianeti.
Questo sfruttamento non è suddiviso in modo eguale: sono le popolazioni occidentali e, negli ultimi anni, quelle delle economie emergenti a inquinare in misura preponderante. La cosa più preoccupante è che, nonostante gli avvertimenti dell’International Panel on Climate Change (Ipcc)* sui rischi di un riscaldamento del Pianeta pari a 2 °C, non si avverte un’inversione di rotta, né a livello di comportamenti individuali né a livello di governi. Trovano invece tuttora supporto le tesi negazioniste, cioè quelle che affermano che il riscaldamento climatico non sia causato dalle attività umane.
Effetti dirompenti
Le conseguenze maggiori si manifestano – e si manifesteranno – soprattutto nei Paesi del Sud del mondo, che sono anche quelli meno attrezzati ad affrontare i fenomeni climatici più estremi. Non vi sono, ad ogni modo, Paesi indenni da effetti perversi. Tra i Paesi che nel 2018 hanno registrato il maggior numero di sfollati interni per motivi ambientali vi sono il Giappone e soprattutto gli Stati Uniti, con 1,2 milioni di persone che si sono dovute spostare.
In questi ultimi anni, e in misura crescente in futuro, in molti si sposteranno perché il luogo in cui vivono è diventato meno (o in-)vivibile: sono i migranti ambientali.
Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim), si tratta di persone o gruppi che, principalmente per ragioni di improvvisi o progressivi cambiamenti ambientali, vedono compromesse le loro condizioni di vita. Devono lasciare le loro case e scelgono di farlo, temporaneamente o in modo permanente, rimanendo nel proprio Paese o andando all’estero.
Oltre la questione climatica
Secondo l’Oim, il cambiamento climatico e le catastrofi naturali sono sempre stati tra i principali motori delle migrazioni, ma per questo secolo le previsioni dei cambiamenti climatici indicano un maggior movimento di persone a causa di disastri correlati a condizioni metereologiche avverse, come temperature estreme e precipitazioni molto intense, di forte impatto sulla vita delle persone.
I migranti ambientali comprendono non solo chi si sposta per motivi collegati al riscaldamento climatico e a problemi strettamente ambientali (inaridimento dei suoli, inondazioni…) ma anche coloro che vedono compromesse le proprie condizioni di vita a causa di attività umane che degradano l’ambiente (accaparramento delle terre e dell’acqua, disastri industriali, deforestazione selvaggia...).
Un po’ di numeri
In genere i migranti ambientali si spostano in prima istanza all’interno del Paese in cui vivono, sono cioè tecnicamente “sfollati interni”; solo in seconda battuta vanno all’estero, divenendo “migranti internazionali”.
Tra il 2008 e il 2018 sono stati registrati 265 milioni di sfollati ambientali. Nel 2018, gli sfollati ambientali (28 milioni) hanno superato gli sfollati per motivi politici a causa di conflitti (17,2 milioni).
Siamo tuttora impreparati ad affrontare tali fenomeni: basti pensare al vuoto giuridico contro cui si scontrano le migrazioni ambientali, almeno in Italia. La Convenzione di Ginevra, in particolare, non ricomprende questo tipo di ragione tra quelle per cui è possibile riconoscere l’asilo.

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