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martedì 24 marzo 2020
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Inquinamento e coronavirus: la lezione dell’emergenza sanitaria alla crisi climatica
Inquinamento e coronavirus: la lezione dell’emergenza sanitaria alla crisi climatica
Il coronavirus ci può insegnare qualcosa su altre emergenze del nostro tempo, come i cambiamenti climatici? La risposta è sì. E non solo perché contrastarle è, in entrambi i casi, una questione mondiale. Una volta passata la pandemia, servirà mettere lo stesso impegno nel contrasto al riscaldamento globale
Le serrate di queste settimane hanno fatto diminuire in Cina e in Italia le emissioni climalteranti, ma la vera sfida arriverà più avanti, quando di fronte alla fondamentale ripresa serviranno, a partire dal nostro Paese, politiche per condurre in maniera seria la lotta per il clima. Partendo da azioni in grado di incidere sulle emissioni del traffico e della produzione energetica, del riscaldamento domestico e delle industrie. Non bisognerà dimenticare, soprattutto in Asia e Africa, che i cambiamenti climatici aumentano i rischi di diffusione di malattie infettive provenienti anche da animali selvatici
Mentre eravamo già in piena emergenza coronavirus, un report dell’Agenzia meteorologica delle Nazioni Unite (Wmo) ha evidenziato come il 2019 sia stato il secondo anno più caldo dal 1850. «Al momento siamo fuori strada per raggiungere i target richiesti dall’accordo di Parigi, sia di 1,5° che di 2°», ha scritto nella prefazione il segretario generale Onu Antonio Guterres. Un allarme che, in un’Italia reclusa e impaurita, è passato inosservato.
Un po’ più spazio hanno trovato le analisi che evidenziano gli effetti ambientali dei blocchi legati al contrasto del coronavirus. Già a metà febbraio, secondo un’analisi di Lauri Myllyvirta del Centre for Research on Energy and Clean Air, le emissioni di anidride carbonica della Cina dei 30 giorni precedenti erano diminuite del 25% e quelle di biossido di azoto del 37%, il consumo di carbone delle centrali del 36% e l’utilizzo della capacità di raffinazione del petrolio del 34 per cento.
Anche in Italia è stata rilevata una progressiva riduzione della concentrazione di biossido di azoto nell’aria, il pericoloso inquinante emesso soprattutto dal traffico veicolare e dagli stabilimenti industriali. Se alcuni scienziati avvertono che prima di correlare misure governative di contrasto al coronavirus e riduzione dell’inquinamento atmosferico bisognerà attendere di avere tutti i dati alla fine della pandemia, non è comunque il caso di farsi prendere dall’ottimismo.
Anche in Italia è stata rilevata una progressiva riduzione della concentrazione di biossido di azoto nell’aria, il pericoloso inquinante emesso soprattutto dal traffico veicolare e dagli stabilimenti industriali. Se alcuni scienziati avvertono che prima di correlare misure governative di contrasto al coronavirus e riduzione dell’inquinamento atmosferico bisognerà attendere di avere tutti i dati alla fine della pandemia, non è comunque il caso di farsi prendere dall’ottimismo.
Per Li Shuo, consulente di Greenpeace Asia, in passato a seguito di restrizioni temporanee si è osservata la tendenza delle aziende a recuperare la produzione persa, generando così quello che viene definito un «inquinamento di rappresaglia».
Il punto, sintetizzato bene dal segretario generale dell’Onu Guterres in occasione della presentazione del rapporto del Wmo, è che «non combatteremo i cambiamenti climatici con un virus». Piuttosto, il riscaldamento globale non deve essere messo in un angolo mentre ci occupiamo di sconfiggere la pandemia: «Entrambi richiedono una risposta decisa. Entrambi devono essere sconfitti», ha detto Guterres sottolineando, recita il comunicato dell’Onu, «come sia importante non permettere che la lotta contro il virus distragga dal bisogno di sconfiggere il cambiamento climatico, le disuguaglianze e i molti altri problemi che il mondo deve affrontare».
Mentre la pandemia sarà comunque temporanea, infatti, il cambiamento climatico è un fenomeno esistente da molti anni e «rimarrà con noi per decenni richiedendo un’azione costante».
Come mostrano i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), nel 2019 le emissioni di CO2 sono rimaste stabili rispetto all’anno precedente: perché si realizzi l’auspicio del suo direttore esecutivo, Fatih Birol, di rendere il 2019 l’anno di massimo picco delle emissioni, servirà insomma ben più di un virus, per quanto grave possa essere.
Quando sarà passata la pandemia, dovremo anche riuscire a fare tesoro dell’esperienza che abbiamo vissuto. Aver provato sulla nostra pelle che cos’è un’emergenza in grado di mettere a repentaglio la nostra salute e il nostro sistema economico e sanitario, ci aiuterà a comprendere la natura dei rischi concreti connessi ai cambiamenti climatici e a combatterli con più decisione. In un’analisi postata su Facebook, il climatologo del Cnr e docente di Fisica del clima all’università di Roma Tre, Antonello Pasini, ha evidenziato come sia nella lotta al coronavirus, sia in quella ai cambiamenti climatici, servano azioni rapide e decise, perché i tempi di risposta sono lunghi.
La lotta ai cambiamenti climatici passa necessariamente da quella per uno sviluppo sostenibile e incrocia il tema della salute. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, tra il 2030 e il 2050 i cambiamenti climatici causeranno ogni anno 250 mila morti in più rispetto ad oggi, per malnutrizione, malaria, diarrea e ondate di calore. Al riscaldamento globale è legato anche un aumento dei rischi di diffusione malattie
Un articolo apparso sulla rivista scientifica Pnas il 25 febbraio 2020, che ha come autore principale il ricercatore del dipartimento di Biologia della Sapienza di Roma Moreno Di Marco, indaga i rapporti tra diffusione delle malattie infettive emergenti (EIDs) come Ebola, influenza, SARS, MERS, e, più recentemente, coronavirus (2019-nCoV), e le azioni per lo sviluppo sostenibile e il contrasto ai cambiamenti climatici.
Gli scienziati spiegano che circa il 70% delle malattie infettive emergenti, e quasi tutte le recenti pandemie, «hanno origine da animali (in gran parte selvatici), e la loro comparsa deriva da una complessa interazione tra animali domestici e/o selvatici e l’essere umano.
La comparsa di una malattia è correlata alla densità della popolazione umana e alla diversità della fauna selvatica ed è accompagnata da cambiamenti antropogenici come deforestazione ed espansione delle superfici coltivate (per esempio cambiamenti nella destinazione delle terre), intensificazione delle attività di allevamento e aumento nella caccia e nel commercio di animali selvatici». Le azioni per assicurare a tutti il diritto alla salute, garantire un ambiente sano e proteggere le persone dai rischi dei cambiamenti climatici, è il senso, fanno parte di un’unica battaglia.