L'UMANITA' DI DIO, di José Maria Castillo - Monastero del Bene Comune

NEWS

Home Top Ad

Post Top Ad

martedì 28 giugno 2011

L'UMANITA' DI DIO, di José Maria Castillo

Di seguito, in una traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci del lungo discorso di investitura del teologo spagnolo José Maria Castillo (la versione integrale in lingua originale può essere letta sul portale Atrio all’indirizzo www.atrio.org). [tratto da Adista Documenti n.47 del 18 giugno 2011]

PENSARE AL TRASCENDENTE DALL’IMMANENZA
(…) Per definizione, Dio è il Trascendente. Con ciò, se parliamo del “Trascendente” e del “trascendentale” nel senso proprio e preciso di ciò che si situa oltre i limiti della nostra conoscenza sperimentale e dimostrabile, ci riferiamo a una realtà che non conosciamo. (…). Ne discende che il “trascendente” è “l’assolutamente altro” in relazione all’“immanente”, che è quanto ricade sotto la nostra capacità di conoscenza. Dall’immanenza, possiamo solo pensare, dire e spiegare “l’immanente”. Perciò, quando le religioni (…) ci parlano di Dio, in realtà non parlano, né possono parlare, di “Dio in sé”, ma delle “rappresentazioni” umane di Dio. Tali rappresentazioni non sono che “oggettivazioni” o “cosificazioni” dell’Assolutamente Altro, del Trascendente, che è Dio. (…).

Se ricordo tali cose, è perché mi pare siano alla base di fenomeni culturali e sociali di enorme portata, che nel nostro tempo stiamo vivendo e soffrendo. Mi riferisco al processo attuale della crisi della fede in Dio, della crisi della religione, della crisi della Chiesa. E al fenomeno, antico e moderno, della violenza che, come spiegherò, racchiude profonde connessioni con il fatto religioso.

LA CRISI ATTUALE DELLA FEDE IN DIO
Quanto alla crisi attuale della fede in Dio, va chiarito per prima cosa che la spiegazione ultima di questa crisi non è nelle ragioni addotte spesso dai teologi, dai sacerdoti e dai vescovi (…). Se molti hanno abbandonato la loro fede (…) è perché è stata loro offerta un’immagine di Dio così deformata da farlo apparire a molti cittadini inaccettabile e persino insopportabile. (…).

Perché la gente pensa a Dio, cerca Dio, crede in Dio? Che necessità abbiamo di ciò che chiamiamo “il trascendente”? Non sarebbe meglio prescindere dalla complicata questione di Dio e delle religioni, per vivere (tranquillamente e senza altri problemi) la nostra limitata condizione umana? Il fatto è che gli esseri umani, dalla loro oscura e arcana preistoria, e nella nostra già lunga storia, non hanno potuto prescindere dalla ricerca di Dio. E ciò proprio a causa delle nostre carenze e dei nostri desideri sempre insoddisfatti. (…). Per questo – esattamente per questo – su questo “Altro”, su questo “Tu” che immaginiamo sia Dio, abbiamo proiettato tutto ciò che desideriamo e di cui manchiamo: potere, saggezza, durata, bontà, felicità… E così abbiamo elaborato l’immagine e la teologia di un Dio che può tutto, sa tutto, ha tutto, ed è la bontà infinita e la felicità senza limiti. È il Dio illimitatamente perfetto di fronte alla nostra limitata imperfezione.

(…). Ma, senza dubbio, non ci siamo resi conto che questo “Altro”, questo “Tu”, questo “oggetto” della nostra mente, è (prima di tutto) questo: un oggetto della nostra mente. Un prodotto, cioè, della nostra immanenza e, pertanto, una realtà immanente, per quanto pomposamente ci si impegni a dire che è il Trascendente. Siamo immanenti e non possiamo uscire dalla nostra immanenza. Perciò, (…) quando abbiamo cercato di superare l’orizzonte ultimo della nostra limitata immanenza, la “rappresentazione del Trascendente” da noi elaborata non ha funzionato. Semplicemente, perché ne è uscito un Dio contraddittorio. Contraddittorio perché risulta evidente che, per come è fatto, questo mondo, che (secondo i teologi) ha la sua origine nella decisione e nel potere di Dio, non può essere stato pensato e creato da un essere che è, allo stesso tempo, infinitamente potente e infinitamente buono. Perché entrambe le cose sono incompatibili con il male, l’eclatante e terribile problema dei tanti mali che soffriamo e dobbiamo sopportare in questa terra. (…).

Ma c’è di più. Perché questo Dio, (…) oltre che contraddittorio, è anche pericoloso. E con ciò passo direttamente a un altro fenomeno che in questo momento preoccupa tutti enormemente e a ragione. Mi riferisco al fenomeno della violenza. (…).

LA FEDE IN DIO COME SAPERE E COME CONVINZIONE
(…) Perché la relazione con Dio possa aver senso (soprattutto ora) ed essere accolta dalla gente del nostro tempo, deve essere non una relazione fondata su credenze centrate sulla metafisica dell’“essere”, ma una relazione basata sulla prassi stórica che si realizza nell’“accadere”. (…).

Per questo, senza dubbio, il giudaismo non ha centrato la sua relazione con Dio sulla fede, ma sulla prassi, sull’azione, sulla condotta, sul compimento della Torah. Pertanto, con ogni ragione, si è detto che, quando nella letteratura rabbinica si utilizza il concetto di “uomo di fede”, ciò che si vuole esprimere è un determinato comportamento, la condotta esemplare che bisogna seguire. In altre parole, si tratta della fedeltà che si realizza e si manifesta nella pratica della giustizia.

In definitiva, l’esattezza e la correttezza della nostra relazione con Dio consiste nell’esattezza e nella correttezza non delle nostre idee religiose, ma della nostra condotta. In altre parole: la relazione dell’essere umano con Dio si verifica non mediante la fede, ma mediante l’etica. Si gioca nell’ambito non delle credenze, ma della condotta. E con ciò arriviamo al punto centrale: di che condotta si tratta?

NÉ CONTRO LA RAGIONE, NÉ CON LA SOLA RAGIONE
Per rispondere a questa domanda, inizio con un’affermazione che mi pare assolutamente necessaria, per quanto possa sembrare ad alcuni un po’ azzardata. Decisamente, dobbiamo pensare a Dio in altro modo. Il che equivale ad affermare che è necessario modificare la nostra idea di Dio e la nostra rappresentazione di Dio. Se prendiamo sul serio la sua trascendenza, essa ci indica che Dio non è un essere supremo che è “al di là e al di sopra del mondo, che viene da fuori a parlare e ad agire nel mondo”. Non ci resta altro rimedio che accettare che Dio è, al tempo stesso, “totalmente altro” e ugualmente “non altro”. (…). Non dovremmo mai dimenticare che l’immanenza non ha accesso alla trascendenza. (…).

Ciò vuol dire che il tema di Dio è condannato inevitabilmente al fallimento? Che ci troviamo in una strada senza uscita? Se ci atteniamo alla sola ragione, per questa via arriviamo direttamente a una contraddizione irrisolvibile. (…). Ma l’essere umano – e qui tocchiamo un punto centrale del discorso – non agisce, né solo né principalmente, sulla base di ciò che può offrire il discorso razionale. “Non dobbiamo” agire mai contro la ragione. Ma è altrettanto vero che “non possiamo” agire se ci limitiamo alla sola ragione. (…).

Le scienze umane ci hanno mostrato fino alla sazietà che i saperi e i comportamenti degli esseri umani sono condizionati e determinati alla radice non solo da contenuti mentali, che esprimiamo mediante segni, ma soprattutto da esperienze (con un senso di totalità) che comunichiamo mediante simboli. Per questo, né la scienza, né le conoscenze che ci appassionano, né le relazioni umane, né (tantomeno) le convinzioni che danno senso alla nostra vita sono determinate solo da ragioni e verità, bensì soprattutto da esperienze e simboli.

Da qui il grande paradosso che consiste nel fatto che, malgrado la contraddizione razionale legata al problema di Dio, le credenze religiose attivano nell’essere umano la forza di esperienze e di simboli mediante cui tali esperienze si esprimono. Simboli che sono, secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur, le «sentinelle dell’orizzonte» ultimo della nostra immanenza. E attraverso cui sappiamo e sperimentiamo che il Trascendente si rende presente a noi nella nostra immanenza.

IL CENTRO DEL CRISTIANESIMO NON È DIO, MA GESÙ
Ciò premesso, possiamo porci la domanda che più direttamente ci interessa qui: come ha risolto la nostra tradizione religiosa (quella cristiana) la difficoltà rappresentata dalla convinzione che il Trascendente ci si rende presente nella nostra immanenza? In altre parole: qual è il contributo della fede cristiana per risolvere il problema della nostra relazione con Dio e anche con l’essere umano?

Il centro del cristianesimo non è Dio, ma Gesù. Mi riferisco al Gesù terreno, nato, vissuto e morto nella Palestina del I secolo. Quell’uomo, quell’essere umano, è il centro del cristianesimo perché in lui Dio si è rivelato, si è fatto conoscere, ha comunicato e si è donato a noi. Di modo che, in Gesù, Dio è entrato nella nostra immanenza e si è unito alla condizione umana. Il che significa che è nell’umano, e solo nell’umano, che possiamo incontrare Dio e relazionarci con Dio. Ciò che afferma la teologia cristiana, quando parla del mistero dell’incarnazione di Dio in Gesù, rappresenta, tra l’altro e fondamentalmente, l’avvenimento dell’umanizzazione di Dio, così come si è realizzato e si è vissuto in quell’essere umano che fu Gesù di Nazareth. Sono convinto che su questo la teologia cristiana non ha riflettuto sufficientemente, né ne ha tratto le dovute conseguenze. (…).

Non è allora nella verità teorica o metafisica, né nello spazio separato e privilegiato del culto cerimoniale che si produce il più profondo e autentico incontro con il Dio di Israele e il Dio di Gesù. È nel quotidiano della vita, in ciò che vi è di più semplice e banale, nelle circostanze della nostra condizione umana, che (…) incontriamo Dio e ci relazioniamo con lui. (…).

Il Vangelo non è solo il “compimento” della Torah (Warren Carter). È la sua “pienezza”, che consiste in “una prassi nel mondo” (Ukrich Luz). Ma, a mio giudizio, questa “prassi” si interpreterebbe male se si riducesse a determinate osservanze o al compimento di certi precetti. Si tratta di qualcosa di indicibilmente più profondo e con un respito di totalità. Che voglio dire con ciò? Tre cose, chiaramente affermate in tre distinte tradizioni del Nuovo Testamento: la tradizione di Paolo di Tarso, quella del vangelo di Giovanni e quella del vangelo di Matteo. In esse si afferma che: 1) Il Dio di Gesù è un Dio che si svuota di se stesso. 2) Il Dio di Gesù è un Dio che si è umanizzato. 3) Il Dio di Gesù è un Dio che si incontra in ogni essere umano.

1) Dio si svuota di se stesso
Ho affermato che Gesù è l’incarnazione di Dio. Ho detto inoltre che per questo Gesù è l’umanizzazione di Dio. Il che vuol dire - seguendo il sorprendente insegnamento di Paolo di Tarso - che, superando ogni limite mentale e ogni misura espressiva - in Gesù Dio «si è svuotato di se stesso» (eautòn ekénosen) (Fil 2, 7).

(...) Evidentemente, questo svuotamento non si può interpretare nel senso che Dio, durante la vita terrena di Gesù, ha smesso di essere Dio. (…). Perché l’essere di Dio ci è sconosciuto. (…). Pertanto, Paolo vuole dire due cose: 1) che di Dio possiamo conoscere solo la sua manifestazione esteriore e accessibile a noi, ossia la sua manifestazione visibile e tangibile. Cioè, di Dio possiamo conoscere solo come si rende presente in questo mondo. 2) Che il Dio che si fa conoscere in Gesù si fa presente solo «in forma di schiavo». E con ciò stiamo affermando che Dio ha rinunciato definitivamente a ogni grandezza, a ogni maestà, a ogni espressione di potere. Cioè, il Dio di Gesù si incontra solo in ciò che può rappresentare uno schiavo nel presente ordine stabilito, ossia in questo mondo. È la rinuncia totale a ogni condizione sacra, a ogni privilegio e a ogni distinzione. Pertanto, nella misura in cui ci avviciniamo a questo modo di essere nel mondo e ci mettiamo dalla parte di chi vive in questo modo, ci avviciniamo a Dio. Procedono pertanto smarriti, persi e senza orientamento quanti (sacerdoti, vescovi o papi) pretendono apparire in questo mondo come “rappresentanti” di un Dio che non può più essere rappresentato se non nello svuotamento e nella nudità degli ultimi, “i nessuno” di questo mondo. (…).

2) Dio si è umanizzato
La teologia cristiana è abituata a parlare dell’incarnazione di Dio. Questa formula è, in fin dei conti, la fedele traduzione del testo greco del prologo del vangelo di Giovanni: ho Lógos sarx egéneto(Gv 1, 14). Ma la teologia si è arrestata, persino bloccata, nella formula dell’“incarnazione”. È notevole la resistenza mostrata quasi sempre dai teologi cristiani nel parlare dell’“umanizzazione” di Dio. Se “il divino” è situato a un livello infinitamente superiore all’“umano”, al pensiero cristiano ha ripugnado l’uso di un linguaggio che potesse rappresentare, o almeno, insinuare un abbassamento della divinità nell’umanità.

(…) È ciò che si avverte nella formula finale del concilio di Calcedonia (a. 451), in cui la Chiesa si vide obbligada a dire che Gesù Cristo è «perfetto nell’umanità», ma in maniera che in lui c’è «una sola persona», che è la persona divina. Il che equivale a dire che in Gesù esiste un’umanità perfetta senza persona umana. Un’affermazione strana che il popolo e la pietà popolare hanno interiorizzato in modo tale che, tra i cristiani educati alla migliore formazione teologica, esiste la convinzione che Gesù fu, naturalmente, umano. Ma realmente meno umano che divino. Che è la stessa cosa che dire che in Gesù prevalse la divinità sull’umanità, cioè il “monofisismo larvato” che molti cristiani portano avanti senza il minimo problema. Molti cristiani si inquietano se si mette in discussione in qualunque maniera la divinità di Cristo. Ma raramente si agitano se si parla di Gesù come una specie di essere celestiale mascherato da uomo.

Dai vangeli apprendiamo che Gesù ha proceduto esattamente al contrario. Se qualcosa è chiaro, nei racconti della vita del Gesù terreno, è che egli fu un uomo, un essere umano come gli altri. Ma lo fu in modo tale che, in quell’essere umano, si vedeva e si palpava Dio. Un’affermazione che, se ancora oggi ci risulta sorprendente, molto più doveva esserlo per chi ha convissuto con Gesù. Nel lungo racconto dell’ultima cena, come lo riposta il IV vangelo, si descrive un momento in cui l’apostolo Filippo interrompe Gesù dicendogli: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). Ciò che in realtà chiedeva Filippo è che Gesù gli “mostrasse”, più ancora, gli “facesse vedere” Dio, giacché proprio questo significa il verbo greco deiknymi, con un senso marcato di visione sensibile. Ebbene, di fronte a tale richiesta, la risposta di Gesù è tanto istruttiva quanto sorprendente: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14, 9). Ciò che in questo racconto richiama l’attenzione è che Filippo chiedeva di conoscere Dio. E che Gesù risponde, con naturalezza, appellandosi alla conoscenza che quegli uomini che lo accompagnavano avevano dello stesso Gesù. Secondo quanto afferma questo vangelo, conoscere Gesù è conoscere Dio. Il che non vuol dire che Gesù fosse “divinizzato”, ma esattamente il contrario, che, in Gesù, Dio si era “umanizzato”. (…).

3) Dio lo si incontra in ogni esssere umano
Ma i vangeli fanno un passo in più. (…). Non si tratta solo del fatto che Dio si è umanizzato nell’essere umano che fu Gesù, il Gesù terreno. In tale direzione, bisogna arrivare fino in fondo, fino alle ultime conseguenze. Nei quattro vangeli richiama l’attenzione una serie di testi, chiaramente paralleli, i cui verbi esprimono azioni umane applicabili ugualmente a esseri umani, a Gesù e a Dio stesso. Questi verbi sono “accogliere”, “ricevere”, “rifiutare”, “ascoltare” (…). È evidente allora che nelle prime comunità di cristiani, dalla comunità di Marco alla Chiesa a cui si rivolge il vangelo di Giovanni, esisteva la convinzione che i comportamenti umani, degli uni con gli altri, sono, in definitiva, i comportamenti che abbiamo con Gesù e, in ultima istanza, con Dio. Pertanto, non si tratta solo dell’“identificazione” di Gesù con i discepoli. Si tratta della cosa più radicale che si può porre nell’ambito delle credenze religiose: ciò che si fa a qualunque essere umano, anche al più piccolo, al più insignificante e al più indegno, è a Dio stesso che la facciamo.

UN ALTRO MODO DI INTENDERE E DI VIVERE LA RELIGIONE
È evidente che la posizione di fondo che si esprime presentando così la relazione con Dio rappresenta un cambiamento radicale nel nostro modo di intendere e di vivere la religione. Si tratta, in definitiva, del fatto che il punto centrale e determinante della religione non è la fede, ma l’etica. Non intendo dire che la fede si oppone all’etica. Ma che l’etica è la realizzazione fondamentale e determinante della fede. Così come il punto determinante della religione (come la presenta il Vangelo) non è il sacro, ma il profano. E il punto determinante della religione di Gesù non è il religioso, ma il laico. E sono cosciente che tali affermazioni possono stupire o scandalizzare persone pie. Ma queste cose bisogna dirle senza paura. Perché è stato Gesù il primo a parlarne. Dicendole con una forza che forse non immaginiamo. Mi riferisco, tra altri passaggi evangelici, al famoso testo del giudizio finale (Mt 25, 31-46), sottomesso a un’enorme discussione. (…). Si tratta del fatto che, al momento della verità, l’unica cosa che resterà in piedi è quanto ciascuno ha fatto per dare, diffondere e contagiare benessere, dignità, libertà, felicità a qualunque essere umano: affamato, assetato, infermo, nudo, straniero, prigioniero, indegno. Quello che importa, che interessa, di cui si terrà conto, nel giudizio ultimo e definitivo della storia e dell’umanità, non sarà la fede, né la religiosità, né la pietà, ma solo l’etica motivata dalla misericordia. Cioè l’amore integro e coerente, come lo stesso vangelo di Matteo insiste in ripetute occasioni (5, 21-48; 7, 21-23; 22, 34-40; 23, 23).

La conseguenza, in una logica sana, di quanto detto sul “Dio kenotico”, sul Dio umanizzato e sul Dio che si incontra in ogni essere umano, è che il progetto cristiano non può che essere lo stesso progetto di Dio. (…). Ne discende che, se vogliamo essere coerenti con ciò in cui crediamo, il progetto cristiano non può essere un progetto di divinizzazione, ma di umanizzazione.

In che consiste tale progetto? L’umano si contrappone al divino. Ma, come sappiamo, il divino si associa al potere, alla gloria e alla grandezza senza limiti. Al contrario, l’umano si relaziona con la debolezza, la limitazione e anche la fragilità. Ciò che è minimamente umano, che è comune a tutti gli esseri umani (…), si riduce alla carnalità e all’alterità: tutti siamo di carne e ossa (carnalità); e tutti abbiamo bisogno gli uni dehli altri (alterità). Essendo questa la condizione umana, si comprende come la tentazione satanica fondamentale sia il desiderio di “essere come Dio” (Gen 3, 5). Cioè, di essere più degli altri e al di sopra degli altri. Da cui la violenza in tutte le sue forme. Perciò, secondo i vangeli, Gesù traccia il cammino della nostra umanizzazione perché il progetto di vita che ci ha lasciato consiste nel non voler mai dominare o sottomettere gli altri, ma nell’essere sempre con loro, specialmente con gli ultimi, con quanti stanno più in basso e sono per questo le vittime della storia. (…).

L’UMANIZZAZIONE DI DIO: MISTICA E TEOLOGIA
(…) Ciò che ho detto non è un’invenzione della teologia progressista e irresponsabile dei decenni scorsi. La cosa viene da lontano. Ha il suo punto di partenza nello “svuotamento” o kenosis di Dio, già formulato da san Paolo molto prima dei vangeli. Un’idea e un’esperienza ripetute, di tempo in tiempo, nel corso della storia. Testimoni di ciò sono stati i mistici. (…).

E avvicinandoci di più al nostro tempo, negli anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, è stato motivo di profonda commozione, negli ambienti teologici cristiani, la lettura delle lettere scritte da Dietrich Bonhoeffer a un amico dalla prigione di Tegel, poco prima di essere impiccato nel campo di sterminio die Flossenbürg, nell’aprile 1945 (…): «La nostra relazione con Dio non è una relazione “religiosa” con l’essere più alto, potente e migliore che possiamo immaginare – questa non è autentica trascendenza -, ma è una nuova vita nell’“essere per gli altri”, nella partecipazione all’essere di Gesù. I compiti infiniti e inaccessibili non sono il trascendente, ma il prossimo che è sempre alla nostra portata». Per questo, senza dubbio, lo stesso Bonhoeffer dichiara con fermezza: «Essere cristiani non significa essere religiosi in un certo modo…, ma significa essere uomini». Uomini nel senso più profondo. Nel senso della nostra piena umanità, senza aggiunte, senza cariche e senza ornamenti, intendendo la nostra umanità come sinonimo della più viscerale fraternità. (…).
Come è noto, a partire dalla seconda guerra mondiale, il pensiero di Bonhoeffer non è stato l’unico a orientarsi in questa “direzione umanista” all’interno della teologia cristiana, tanto protestante quanto cattolica. Nell’ambito del protestantismo, si distingue la teologia di Paul Tillich. La convinzione di Tillich è che l’incondizionato, il divino, è presente in ogni attività umana. E le conseguenze sono di enorme portata. Perché, per Tillich, ciò vuol dire che, prima di tutto, il divino non deve cercarsi “separato” dall’umano o “al margine” della vita. Per questo il teologo ha rifiutato con forza ciò che chiamava il «soprannaturalismo», che stabilisce un secondo mondo, un mondo di realtà divine al margine e sopra il mondo qui in basso. (…). Pertanto, secondo Tillich, bisogna curare l’essere umano. La salvezza non è l’evasione dall’umano, ma l’unità con se stessi come con il fondamento divino del proprio essere. (…). 

Ebbene, rispetto a questo punto centrale, è decisivo aver chiaro che la morte di un uomo che, al tempo di Gesù e nella cultura dell’Impero, era assassinato su una croce, non solo non aveva nulla a che vedere con il sacro o con il religioso, ma rappresentava esattamente il contrario: la degradazione, l’esclusione, persino la maledizione suprema che poteva pesare su un essere umano. (…).

IL CRISTIANESIMO COME MOVIMENTO “NON-RELIGIOSO”
Per tutto ciò si deve dire che la corretta comprensione del cristianesimo è quella che lo interpreta come un movimento non-religioso. (…). Sono profondamente convinto che Gesù è patrimonio di tutta l’umanità. Voglio dire: Gesù non è proprietà del cristianesimo. Né è di appartenenza esclusiva dei cristiani o della Chiesa. È stata la Chiesa che si è appropriata di Gesù e lo ha presentato come il centro e il contenuto fondamentale di una religione determinata, quella cristiana. In realtà, la Chiesa avrebbe dovuto avere la libertà, il coraggio e l’onestà di presentare Gesù come la realizzazione piena di ciò che è più profondamente umano, pienamente umano, minimamente umano, di ciò che, al di sopra di culture, tradizioni, costumi e credenze religiose, costituisce la realizzazione degli aneliti di umanità e di ultimità che tutti portiamo iscritti nella profondità del nostro essere. (…).

Pertanto, se Dio lo incontriamo in ciò che è veramente umano, ciò vuol dire che lo incontriamo nella libertà umana, nell’amore umano, nel rispetto per gli altri, nella vicinanza a tutto ciò che c’è di autenticamente umano nella vita. Ma non solo. Se facciamo un passo oltre, arriveremo alla conclusione che le istituzioni religiose, che invocano l’autorità di Gesù Cristo, non possono invocare un presunto potere, emanato da Gesù, in virtù del quale si sentono in diritto di tagliare, ridurre o annullare i diritti fondamentali delle persone, le libertà dei cittadini, condizionando la laicità dei poteri pubblici, sempre che tali poteri si conformino ai diritti umani approvati dalla comunità internazionale. (…).

IL FUTURO DELLA CHIESA E DELLA TEOLOGIA
Per finire, mi sembra decisivo insistere sul fatto che la Chiesa avrà un futuro e la teologia potrà sopravvivere nella misura in cui entrambe abbiano il coraggio e la libertà di seguire una direzione diversa da quella a cui finora sono state fedeli. (…). Sappiamo tutti che le teologie resistono al cambiamento e, spesso, restano bloccate nella fedeltà alle tradizioni di un passato che non sarà mai più determinante nelal vita degli individui e dei popoli. Da qui lo sfasamento sempre più forte che si coglie tra teologia e scienza, tra teologia e società.

Spesso questo sfasamento si spiega con la prepotenza e l’ansia di comando dei dirigenti religiosi, protetti da presunti poteri divini che, provenendo dal cielo, saranno sempre al di sopra dei poteri della terra. (…). Ma non credo che il fondo del problema sia questo. (…). Si tratta, secondo me, di un problema strettamente teologico. Non mi stancherò mai di ripetere che «in problemi di reale importanza, la cosa più pratica è avere una buona teoria». Ed è questo che fa troppo spesso difetto a non pochi ambienti religiosi e teológici. È la teoria su Dio che fa difetto. (…). Se ho ragione, Dio non lo incontriamo in un “Tu” trascendente, impostoci a partire da un potere inappellabile. Già ho detto che questa rappresentazione di Dio è alla base ed è la spiegazione dell’attuale crisi della fede in Dio. Perché ogni giorno (per fortuna) è più scarso il numero di persone che continuano a credere in questo Dio contraddittorio e pericoloso. Per questo ho insistito sul fatto che Dio lo incontramo nella nostra immanenza, nella laicità, nel secolare, nel civile, nell’umano. E lo incontriamo anche – e mi pare determinante – nell’esperienza simbolica che viviamo nella nostra intimità, che può essere l’esperienza estetica, l’esperienza del silenzio o l’esperienza della preghiera come espressione dei nostri aneliti più profondi. (…).

Se tale è il concetto e l’esperienza di Dio, la teologia, in quanto sapere che si occupa del tema di questo Dio che incontriamo nell’umano, dovrà essere, se vuole continuare ad esistere nel futuro, prima che un sapere superiore che insegna agli altri saperi, un soggetto umile e modesto che dovrà sempre presentarsi, con umiltà e modestia, come un sapere umano che apprende dagli altri saperi ciò che ha bisogno di assimilare per conoscere meglio l’umano, per interpretare a partire dai saperi umani il significato e la portata della presenza del Dio umanizzato tra gli esseri umani. Perché – non dimentichiamolo mai – è nell’umano, e principalmente nell’umano, che possiamo incontrare Dio. (…). E oggi (…) i cambiamenti accelerati degli ultimi decenni ci spingono ad affermare, con libertà e audacia, che d’ora in avanti, avrà senso e futuro solo la teologia che sarà capace di offrire un qualche significato alla vita. E così di potenziare la migliore risposta che possiamo dare ai nostri aneliti di umanità. Gli aneliti che cercano un modo di vita che, in quanto più pienamente umano, è anche più pienamente felice.

Post Bottom Ad

Pages