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giovedì 9 maggio 2013

>Disastro in Bangladesh. Nella fabbrica si producevano marchi occidentali

In Bangladesh si muore di occidentalismi.
La nostra moda, quella low cost che ci piace indossare per risparmiare e sentirci fighi per aver risparmiato – le dichiarazioni del Presidente della Camera Laura Boldrini che in un’intervista a (D) di Repubblica ha spiegato recentemente come le piaccia acquistare nei negozietti dei cinesi, insegnano -, viene prodotta, anche, nella poverissima Dacca, dove uno stipendio si aggira sugli 83 centesimi di euro al giorno. E proprio questo distretto è tornato nuovamente alla ribalta delle cronache in questi giorni a causa del disastro di un edificio crollato con all’interno centinaia di donne – prevalentemente – e operai che producevano capi di abbigliamento. La città non è nuova a questo tipo di disastro. Le condizioni dei lavoratori sono al limite della schiavitù e le vite, grazie alla mancanza di sicurezza sul lavoro, sono esposte alla morte quotidianamente. La notizia vera, però, è che per quanto molte aziende fashion occidentali producano in paesi poveri a costi ridottissimi, i nomi delle suddette non sono mai usciti allo scoperto.
In questo caso tragico, però, alcuni nomi di noti brand sono emersi: nella fabbrica dove sono morte, in particolare, 376, sono state trovate magliette che riportavano etichette a marchio United Colors of Benetton. L’azienda, che lo scorso anno aveva lanciato una campagna internazionale intitolata Unemployee contro la disoccupazione, in un primo momento contattata dall’AFP – agenzia France Press – ha negato di avere fornitori all’interno del palazzo crollato, quando però, in un secondo momento l’AFP ha dichiarato di aver ricevuto copie di alcuni documenti di produzione in cui compare anche un ordine di Benetton che risale al settembre dello scorso anno per una commessa di circa 30.000 capi, Benetton non ha più risposto – questa mattina VM-MAG ha contattato l’ufficio stampa dell’azienda che però, in mancanza della responsabile in viaggio per lavoro, ha preferito non rilasciare dichiarazioni sulla questione -. Ma l’azienda italiana non è l’unica a essere stata chiamata in causa nel disastro: il marchio low cost Primark ha ammesso di essersi avvalso della produzione insita alla fabbrica, tanto che domenica è stata contestata in centro Londra da alcuni attivisti contrari allo sfruttamento dei paesi più poveri a opera degli occidentali. Tra gli altri marchi che hanno ammesso di aver fatto realizzare produzioni all’interno dell’azienda, anche Mango, Cato, Bon Marche, El Corte Ingles e Joe Fresh. (V.M.)

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